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Meravigliarsi per crescere – edizione 2020

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                         Un capitolo del libro:

CHI SONO IO?

A chiunque è capitato di porsi delle domande di carattere “esi­stenziale” circa la propria vita personale.

Mi aveva colpito molto quel concetto “strano” che Marcello aveva presentato agli allievi del Corso secondo il quale ognuno di noi è la persona più importante che esista al mondo per se stesso e che ognuno degli altri lo è, per sé, al di là di quello che può pensare di se stesso.

Quell’uomo aveva un’incredibile capacità di farmi pensare, sen­za però mai usare i parametri che avevo utilizzato fino ad allora e che, devo constatare, si utilizzano anche oggi. Marcello era stato molto chiaro quando, presentando questo concetto, aveva anche par­lato della distinzione tra “sano egoismo” ed “egotismo”; così, dice­va, «il “sano egoista” è colui che è consapevole di essere la persona più importante al mondo, per se stesso, e che considera l’altro come la persona più importante al mondo, per lui stesso e sa che tanto più importante diventa quanto più riconosce l’importanza dell’altro, e non fa nulla per offuscarla o sminuirla. L’egotista è invece colui che si considera come la persona più importante al mondo, e basta; quindi, per lui, gli altri è come se non esistessero.»

Sul punto, la mia consapevolezza era molto rigida: o penso a me, o penso agli altri, e siccome è importante pensare agli altri (o almeno farlo credere) perché “bisogna essere altruisti”, devo stare lontano da tutto quello che riguarda me personalmente.

Tra l’altro, Marcello (detto anche Ma.Bo., seppi dopo), aveva scardinato in un attimo anche quel poco di educazione religiosa che avevo fatta mia; infatti, egli disse subito che, del resto, «anche in quel libriccino che si vende nelle bancarelle è scritto da qualche parte: ama il prossimo tuo come te stesso. Quindi, se vogliamo usare il buon senso, dovremmo concludere che un buon punto di partenza è quello di cominciare a lavorare, seriamente, su se stessi. E ciò, sia perché perfetto non lo è nessuno, sia perché, anche a volere pensare agli altri, ci si accorge che per imparare ad amare gli altri bisogna avere imparato ad amare se stessi. È chiaro?»

Quando diceva «è chiaro?», le risposte possibili erano solo due: o sì o … sì. Però mi piaceva molto quando si rivolgeva agli allievi con quel suo «è chiaro?» non mi sentivo costretto a pensare di , quindi ero anche libero di pensare di no, ma il sì mi sembrava l’unica risposta possibile.

Certo è che, in quel modo, il mio concetto di umiltà che avevo fino ad allora coltivato veniva totalmente scardinato; francamente, mi era anche comodo quel concetto di umiltà, prima di tutto perché mi permetteva di fare “bella figura” con gli altri, poi perché mi faceva sentire “buono e a posto” ed infine perché, in quel modo, potevo fare a meno di togliermi qualche difetto, perché, tanto, pensavo, basta pen­sare di non essere nessuno e quel difetto è come se non ci fosse.

E poi, quel mio concetto personale mi permetteva di salvare “capra” (e cioè me cui, comunque, tenevo) e “cavoli” (cioè gli altri, che, in ogni caso, mi interessavano), anche se sentivo che, ad ascol­tare Ma.Bo., le mie difese razionali venivano continuamente messe in discussione, quasi senza che neanche me ne accorgessi. Così, quando lo sentii fare l’esempio del libriccino che si vende nelle bancarelle, dovendo comunque “inquadrare” quell’uomo ed il Corso che stavo frequentando, pensai che doveva esserci una matri­ce religiosa alla base di ciò che stavamo facendo. Non avevo ancora finito il pensiero e sentii Marcello dire: «Però in questo Corso non parleremo né di politica né di religione; parleremo di fatti e mai di opinioni e cercheremo di usare il buon senso, quindi non state tanto a pensare a cosa può esserci “sotto”. “Sotto” non c’è niente, l’unica cosa che sto cercando di dire è che se al vostro sviluppo personale non ci pensate voi, non può pensarci nessun altro o, peggio, se ci pensano gli altri, ci pensano come vogliono loro, non come volete voi!.»

Quest’uomo è pericoloso, pensai; se adesso ognuno si met­te a fare quello che vuole, scoppia la rivoluzione. Anche in questo caso, prima ancora che avessi finito di pensare, Marcello incalzò: «Attenzione, libertà non vuol dire fare quello che si vuole, anche la libertà ha un prezzo da pagare e se uno non è disposto a pagare il prezzo della sua libertà, non potrà mai essere libero; non solo, ma il parametro della sua libertà sta nella considerazione che egli ha del­la libertà degli altri. In poche parole, i miei diritti iniziano laddove ho assolto, correttamente, ai miei doveri e terminano dove iniziano i diritti degli altri; quindi, tornando a noi, che risposta plausibile potremmo dare alla domanda “chi sono io?”»

Ci sono dei momenti nella vita in cui ti sembra di essere un im­becille. Quello era uno di quei momenti.

La mia mente non riusciva nemmeno ad intuire un piccolo bar­lume di risposta alla domanda di Ma.Bo.
Ma come, pensai, sto tutto il giorno a farmi un sacco di “pare” (leggi: paranoie) sulla mia identità, sul mio valore, sui miei difetti (tanti), sui miei pregi (quasi inesistenti); sul fatto che quando una cosa va male vuol dire che non sono capace di fare niente, e che in­vece quando va bene è solo un caso; che gli altri sono “più” di me, spesso, e “meno” di me, più raramente; che è importante avere sem­pre una spiegazione plausibile per ogni questione e adesso che un tipo qualsiasi mi fa la “domanda del secolo”, non riesco nemmeno a mettere insieme due pensieri di risposta.

Del resto, se ci sono dei momenti in cui ci si sente un imbecille, ce ne sono altri in cui ci si sente un deficiente; e il momento della risposta fu quello in cui mi sentii, appunto, un deficiente, perché Marcello, come se la risposta fosse stata la più lapalissiana possibile, con il più disarmante dei sorrisi, di fronte ad un gruppo di una venti­na di persone che si sentivano, più o meno, come me, esclamò: «una persona.» Confesso che, tra le varie risposte possibili alle quali, dopo, a mente fredda, avrei pensato, quella di essere “una persona” non c’era proprio; avrei detto di essere un ragazzo ancora giovane, un imbranato, un giocatore di pallacanestro di “belle” speranze, uno studente poco modello, ma quella di definirmi “una persona” era estranea alle mie variabili mentali.

Del resto, quel modo di fare di Marcello mi piaceva proprio, perché, comunque, riusciva a catturare la mia attenzione in modo totale, e trasmetteva un senso di sicurezza che non avevo mai visto in nessuno, fino ad allora. Tanto sembrava determinato, senza al­cuna paura, quando ci diceva «se ve ne volete andare, andatevene quando volete, ritirate il vostro “malloppo” e amici come prima», altrettanto dimostrava una pazienza infinita allorché spiegava i vari passaggi relativi alle tecniche che sperimentavamo. Così, dopo aver detto «una persona», la domanda successiva fu «e come è fatta que­sta persona?»

Silenzio assoluto tra noi allievi, un silenzio del tipo “ma che do­mande sono queste?”; totalmente incurante di quel silenzio, Ma.Bo. andò avanti, dicendo: «Mettiamola così: ogni persona ha un livello, che potremmo chiamare oggettivo, fatto di vestiti, carne, muscoli, ossa, nervi ecc.. Ma siamo fatti solo così o abbiamo qualcosa d’al­ tro? Ad esempio, i pensieri, i sogni, le emozioni, le intuizioni, sono misurabili oggettivamente? Fanno parte del mondo oggettivo o fan­no parte di un altro mondo, distinto da quello? E, quindi, se abbia­mo anche un altro livello, oltre a quello oggettivo, come potremmo chiamare questo altro livello?» Mi guardò come se volesse dirmi: «forza, fai vedere quanto bravo sei!»; mi sentii un miserabile, perché avrei voluto dire qualcosa, ma avevo una paura folle e stare fermo e zitto era l’unica reazione che mi pareva di poter avere. «Bene – ripre­se – lo chiameremo livello soggettivo.» E così, disegnò alla lavagna due cerchi che si toccavano tra di loro. «Bene, secondo voi, questi due livelli sono collegati tra di loro, possono influenzarsi tra di loro, li conosciamo bene tutti e due, oppure, nella nostra vita quotidiana, ci limitiamo a vivere uno solo di questi livelli e tralasciamo l’altro? Forse avete già sentito parlare di malattie psicosomatiche, cioè di malattie che sono determinate da un aspetto psichico, soggettivo, che però si manifestano a livello concreto, oggettivo. Secondo i me­dici, oggi, circa il 75% delle malattie sono di carattere psicosomati­co; un po’ tante, vero? Per fare un esempio, vari tipi di mal di testa, insonnia, colite, gastrite, difficoltà digestive, dolori muscolari e chi più ne ha più ne metta, sono determinati da uno stato di tensione soggettiva che, non essendo lasciata uscire fuori, rimane dentro e crea problemi fisici. Il corpo è un po’ come una pentola a pressione; se non facciamo sfiatare la valvolina, la pentola si rompe, così come il corpo si rompe, nel punto più debole.»

A proseguire sull’onda aperta da Ma.Bo., a quel punto, ero capa­ce anch’io: se fossi riuscito a rilassare la tensione che accumulavo a tonnellate, nei miei sforzi di giocare bene a pallacanestro, laurearmi, fare bene comunque le cose che facevo, ecc., la mia ulcera, forse, se ne sarebbe andata ed io avrei risolto il problema più grande che avevo. Però, pensai, e se poi mi ritorna? e se invece non funziona? come faccio a saperlo prima?

E così, come spesso constatai durante il Corso e durante gli oltre venti anni di incontri con Ma.Bo., le sue osservazioni successive a quegli interrogativi, erano una risposta agli stessi e, come sempre, una risposta che di razionale e logico aveva proprio poco. «Del resto, io non sono qui per convincere nessuno; vi chiedo solo di provare prima le tecniche di rilassamento e di visualizzazione che vi propon­go e di giudicare poi; per quanto riguarda poi i risultati, dovete te­nere presente che ogni persona riceve, né più né meno, tanto quanto è disponibile a dare in cambio e, per quanto riguarda questo Corso, non agli altri, ma a se stessa. Quindi, se otterrete dei risultati, il me­rito non sarà mio, del Corso, o di chi vi ha portato fin qui: il merito sarà solo ed esclusivamente vostro; qui, al massimo, costruiremo una bicicletta e, una volta che la bicicletta sarà costruita, ognuno deciderà se pedalarci, o meno. E tenete comunque presente che il modo migliore per sperimentare bene queste tecniche è quello di “sforzarsi di non sforzarsi”.»

Mi sentivo con le spalle al muro. Marcello riusciva, in pochissi­mi secondi, a mettere K.O. quelle difese che mi ero, con grande fati­ca, costruito, parlando come se stesse bevendo un bicchiere d’acqua fresca.

La sua semplicità era disarmante; era chiarissimo che non avrebbe accettato sfide personali, contestazioni, precisazioni, “di­stinguo”, “io non sono d’accordo”, “però certe cose non si devono dire”, “certe cose si possono fare meglio”.

Se non mi andava la sua proposta, aveva detto, me ne potevo andare in qualsiasi momento; perché non alzarmi e ritornare nel tran-tran del “tanto, così fanno tutti”? Rinunciare mi faceva sentire un vigliacco, ma provare a “sforzarmi di non sforzarmi” mi faceva sentire discretamente “strano”. E poi, quel fatto che i risultati (ul­cera compresa) sarebbero dipesi da quanto sarei stato sinceramente disponibile nei miei confronti mi faceva sentire come quell’acrobata che, ad un tratto, dopo aver operato per tanto tempo con la rete sotto, si trova a volteggiare senza. Nel tempo, mi resi conto che la mia rete era costituita da tanti “sì, però”, da vari alibi che mi ero creato per giustificare le mie cadute (tanto, sotto c’è la rete), da atteggiamenti di pura esteriorità, senza alcuna reale concretezza, da paure mai affrontate, da sogni sì immaginati, che però mi sembravano troppo difficili da realizzare.

Marcello mi aveva tolto la rete: «Vuoi migliorare? Datti da fare. Come? Sforzati di non sforzarti. Come si fa? Prima prova, e poi ne parliamo. Non ti va? Grazie e arrivederci.»

Stavo toccando con mano come, spesso, si dà per scontato che si vuole stare bene, ma che forse non è esattamente così. Finché si tratta di stare a livello superficiale, logico, razionale, siamo maestri a recitare la parte del cavaliere senza macchia e senza paura; ma poi, quando si toglie la rete della superficialità, della logica e della razio­nalità, ci fa paura fare anche solo un saltino di venti centimetri.

Ero ben consapevole dei dolori allo stomaco che provavo, ma ero restio a provare quel modo strano, non conosciuto, che Marcello mi proponeva: “sforzarmi di non sforzarmi”.

«Non serve che ci pensi; non ci arrivi pensando; ci arrivi smet­tendola di pensare e provando» – diceva.

Per mia fortuna, provai; e fu l’inizio della vera risalita.

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