Dalla parte del padre e del bambino

dalla parte del padre

DALLA PARTE DEL PADRE E DEL BAMBINO

di Carlo Spillare – 1989

 

Di solito, per fare un figlio bisogna essere in… due: il maschio collabora con il proprio seme, la donna con il proprio ovulo.

La nascita di un figlio è, a mio parere, l’esempio più chiaro di come, per costruire qualcosa di concreto e di valido, sia necessario collaborare con qualcuno (perché da soli si costruisce solo… aria) e sia necessa­rio dare qualcosa di proprio (perché altrimenti la realizzazione del proget­to non sarebbe possibile).

La responsabilità del “risultato” va quindi divisa tra i due artefici, né si potrebbe fare una graduatoria di merito (è più importante la madre o è più importante il padre?); di fatto la madre ha determinate competenze e responsabilità, il padre ha altre com­petenze e responsabilità.

L’insieme del comportamento del padre e della madre determina quella che è comunemente chiamata l’edu­cazione (da e-ducere: tirar fuori) del figlio: fare sì che il figlio tiri fuo­ri, cioè esprima, le sue naturali e reali capacità e qualità, fino al giorno in cui sarà in grado di auto-educarsi, di esprimere le proprie capacità e qua­lità senza l’aiuto, il supporto, l’indi­rizzo, il comportamento dei genitori.

Formare una persona, o meglio, lasciare che una persona si formi secondo le proprie caratteristiche e la propria indole personale e che le pos­sa esprimere all’interno delle “Rego­le del Gioco” richieste dalla vita, quotidiana e non, non è un compito da poco.

Ciò esige impegno continuo, dedi­zione completa, conoscenza specifi­ca, fiducia in sé e nel figlio (oltre che nel partner), lealtà, coraggio, capa­cità di osservazione, silenzio, alle­gria, capacità di mettersi nei panni del bambino.

Esige sapersi mettere in discussione.

E per quanto riguarda il ruolo del Padre, e dell’Uomo in generale, il mettersi in discussione è stato ed è uno degli aspetti più importanti che l’uomo di oggi ha dovuto, e deve, affrontare.

Nei miei ricordi personali, ho l’immagine del mio Nonno, che impersonava la legge della famiglia: non parlava molto, anzi, parlava pro­prio poco, ma quando parlava, con tutta la famiglia riunita, “parla il non­no”: quindi tutti zitti ad ascoltare e mettere in pratica quanto diceva.

Ricordo mio padre, anche lui di poche parole, che rientrando dal lavoro (sua competenza e responsabi­lità totale e personale) quando parla­va, quasi sempre mentre stavamo seduti a tavola, “parla il papà”, quin­di tutti zitti ad ascoltare, a riflettere su quanto diceva per metterlo poi in pratica. (Es.: “prima il dovere, poi il piacere”; “a scuola è andata male? Non dare la colpa all’insegnante, agli altri ecc.; non hai studiato bene, ecco il punto!”).

Ho avuto un’educazione paterna, rigida, ma ho un ricordo ed una immagine, sia di mio padre che di mio nonno, molto caldi e positivi, aiutato probabilmente dall’aver vis­suto i primi anni della mia vita in campagna, in mezzo ai contadini, i quali, si sa, comunicano e parlano con gli occhi, con i gesti, con il silen­zio e che quando parlano, pensano e pesano bene ciò che dicono.

Da allora ad oggi però le cose sono molto cambiate e l’Uomo ha dovuto affrontare una serie di cambiamenti sociali che hanno messo fortemente in discussione la sua figura e che di conseguenza lo hanno anche messo in uno stato di confusione, non potendo più tornare indietro (nelle vecchie maniere) e non avendo le idee chiare sul nuovo modo di interpretare il suo ruolo maschile.

Se, ad esempio, una volta era accettato, se non auspicato, un comportamento rigido ed autoritario, oggi tale comportamento non è più adeguato: chi si comporta in modo rigido ed autoritario non ha seguito, non ha credibilità né affidabilità, anche se lo fa in buona fede.

Chi ha fatto di più le spese di tale cambiamento è stato l’Uomo, che ha maggiormente interpretato un ruolo rigido ed autoritario.

Ma dire che l’esser rigido ed autori­tario non sono più comportamenti adeguati non vuoi dire che l’uomo è sbagliato; a ben guardare nemmeno l’esser rigido ed autoritario è stato sbagliato, perché era adeguato alla realtà di quel tempo (la fine della guerra, le situazioni economiche di allora ecc.).

Oggi la realtà è diversa e quindi anche il comportamento dovrà essere diverso.

Ma i princìpi rimangono gli stessi.

Molti uomini sono entrati in crisi quando si sono sentiti toccati non tanto sul comportamento quanto piut­tosto sul proprio valore personale, sulla propria funzione ed importanza di essere uomini (e Padri nel nostro caso).

Il padre continuerà a rivestire la funzione di guida, di autorità, di pun­to di riferimento pratico, ma la met­terà in pratica non con un comporta­mento rigido ed autoritario, ma con un comportamento morbido e rilassa­to, nel continuo rispetto e nella conti­nua educazione delle “Regole del Gioco”, premi e castighi compresi. Il padre di oggi, come la madre del resto, è una Persona chiamata a pensare.

Pensare per comprendere.

Del resto l’adulto di domani (che è il bambino di oggi) è una persona che dovrà saper pensare.

Pensare per comprendere, non quin­di una rigida accettazione ed obbedienza ed insegnamenti ricevuti ed imposti, ma una realistica e completa “digestione” e maturazione degli insegnamenti e delle regole.

Il “tutto e subito” non esiste più!

Il bambino di oggi ha la possibilità di conoscere, crescere, provare, tro­vare la propria strada senza incappa­re in traumi dannosi (pur continuan­do ad affrontare le prove che la vita richiede) se troverà un Padre ed una Madre intelligenti (da intelligere: comprendere, saper valutare).

Se è fondamentale avere una chiara immagine del bambino al meglio, è altrettanto fondamentale avere gra­dualità e quindi saper comprendere la realtà del bambino, il suo punto di vista.

Per fare ciò occorre saper osservare e saper ascoltare il bambino, per conoscere il suo livello, il suo punto di vista, senza pre-giudizi né pre-concetti e per riuscire, da quel suo livel­lo, ad aiutarlo a fare un passo in più.

Se personalmente conosco l’acqua e so che non c’è d’aver paura, nei panni del bambino l’acqua è qualco­sa di sconosciuto (che può far paura) e a maggior ragione può far paura nuotarci dentro.

Se so che nuotare è piacevole ed utile, devo tener presente da dove parte il bambino e far sì che egli impari, senza traumi né forzature, attraverso piccoli e continui successi giornalieri.

Se il bambino ha paura dell’acqua, il primo giorno è già un successo giocare un po’ con l’acqua, il secon­do giorno rimanere aggrappato al bordo della piscina, il terzo giorno muovere un po’ le braccia aggrappa­to al genitore e così via.

L’esempio è puramente indicativo (i maestri di nuoto…. saranno inorriditi, forse), ma ciò che conta è che il bambi­no può imparare, nei fatti, senza biso­gno di forzature ed attraverso successi, anche piccoli, continui, che rinforzano la fiducia in sé, nell’ambiente che ha attorno e negli altri.

Sento una “voce” che mi incalza e che mi dice: “Io mi sono fatto dal niente e da solo. Se così è stato per me, così può essere anche per mio figlio!”.

Vero, mi viene da rispondere. Ma se fin da bambino Tu, genitore, avessi avuto qualcuno che, in certi momenti, ti avesse dato una mano in più per vivere, superare e compren­dere meglio le varie esperienze della vita di tutti i giorni, non ti sembra che avresti fatto meno fatica per diventare quello che sei diventato?

Visto che una persona vale per quel­lo che è e visto che in ogni caso sua è la scelta di comportarsi, o meno, per quello che è, non è forse meglio per il bambino, per la qualità della sua vita, utilizzare al meglio le capacità e le conoscenze dei genitori e le cono­scenze e le capacità di coloro che pos­sono dargli una mano in più?

È vero che rispondere, ad esempio, a tono ad una domanda di un bambi­no occorre tempo e pazienza, oltre che l’accettazione ad essere “tocca­ti” a livello personale, ma non è forse meglio investire tre minuti in una risposta chiara, precisa e corretta, che cementa, tra l’altro, il rapporto con il figlio, anziché lasciare un dubbio nella sua testa e lasciarlo magari per anni con quel dubbio in testa, visto anche che le cose, così mi è stato insegnato, per essere ben comprese, devono essere ripetute almeno quat­tro volte, sempre con la stessa atten­zione e pazienza?

Perché? Perché l’uomo è fatto così e perché così funziona.

Con questo non voglio affermare che è facile, né che ci siano le “ricet­te” del buon genitore.

Ma si possono prendere, se ci si pensa un po’ su, alcuni accorgimenti, di buon senso, interessanti, per poter essere un “buon” genitore.

Un primo accorgimento sta nell’avere un comportamento perso­nale corretto e coerente; si sa che la comunicazione non verbale è di gran lunga più incisiva di quella verbale (ad esempio: un bambino “ascolta” molto di più il tono della voce, inve­ce che le parole) e soprattutto nel rapporto genitore-figlio questa intima comunicazione silenziosa raggiunge una dimensione profonda e completa.

Il bambino impara attraverso esem­pi visivi e concreti, così osserva anche i piccoli gesti, scruta, si pone domande, verifica quanto viene detto e in base alla verifica, si fida o meno del genitore; se voglio insegnare a mio figlio ad essere sicuro, fiducioso, coraggioso, io per primo, come geni­tore, dovrò essere sicuro, fiducioso, coraggioso.

Se poi si considera che l’immagine di sé del bambino, che poi determina il suo comportamento oggettivo oltre che la stima e la fiducia in se stesso, si forma e si modella in relazione alle esperienze che il bambino fa ed in relazione al rapporto ed alla comuni­cazione che il genitore instaura con lui, si comprende che oltre che assu­mere un comportamento personale corretto e coerente, il genitore (e tutti coloro che -educatori- entrano in contatto col bambino) può fare molto per far crescere un bambino (e doma­ni un adolescente ed un adulto) sano e felice; ad esempio, lasciando che sia il bambino a trovare la sua strada preferita.

(Se il padre è medico, non necessa­riamente lo dovrà essere anche il figlio; se il padre è un atleta, non necessariamente lo dovrà diventare anche il figlio), oppure apprezzando ciò che il figlio ha di buono e sa fare di buono, invece di chiedergli qualco­sa che gli è completamente estranea.

Un momento fondamentale nel qua­le si concorre a formare l’identità e la personalità del figlio è poi quello relativo alle “critiche”.

Un buon genitore accentua gli aspetti positivi e quindi…. impara a criticare.

Le critiche “negative” possono essere distruttive, come quando si rileva l’errore del figlio pubblicamente o subito dopo che lo ha commesso, oppure tramite ordini perentori (“vieni subito qua!” – “veloce!” – “sta zitto!” – “muoviti!”).

Le critiche “positive” sono espresse tramite istruzioni positive (su come va fatto un lavoro o un compito) esattamente come le farebbe un ami­co e tramite incoraggiamenti positivi (“sono certo che ce la farai!” – “dai!” – “forza!”), tenendo presente che l’errore, qualunque esso sia, è il frut­to di una lezione o di un compito o di un aspetto non compreso.

Non si tratta, pertanto, di essere buoni o cattivi.

Si tratta di essere sinceri, sicuri, pre­cisi, attenti, comprensivi e positivi.

Il genitore tiene per sé i giudizi del figlio e prima di fare una valutazione (“hai sbagliato!”) sarebbe forse opportuno chiedere al figlio cosa ne pensa lui.

Se il padre comunica la sua delusio­ne al figlio, non soltanto crea delle tensioni, ma incide anche sull’imma­gine del figlio, in modo negativo e senza la fiducia trasmessa dal genito­re, il figlio difficilmente riuscirà a combinare qualcosa di buono.

L’auto-immagine del figlio si forma positivamente anche non sovraccari­cando il figlio….

…. di responsabilità;

…. di doveri;

…. di obblighi; e, parlando a tu per tu, con il figlio; solo così egli si sen­tirà apprezzato e considerato nella sua unicità ed individualità.

Una particolare attenzione potrebbe essere rivolta ai riti ed alle tradizioni di famiglia, in cui non esiste sola­mente il Natale, Pasqua ed i com­pleanni, ma dove si può anche pren­dere l’abitudine di ritrovarsi “tutti assieme” (ad esempio, per una pizza ogni settimana) anche senza un moti­vo particolare.

I riti e le tradizioni (adeguati ai tempi) consolidano il gruppo familia­re, creano sintonia, punti di riferi­mento nei figli e nei genitori; sono momenti di ritrovo e ricarica, se ser­ve, prima di rituffarsi negli impegni individuali o di coppia.

Non si può dimenticare, poi, che il bambino osserva non solo il genitore, ma anche la coppia.

E prima ancora di vedere una cop­pia unita, il figlio ha bisogno di vede­re una coppia autentica, generatrice di sicurezza.

Un buon rapporto di coppia è, pos­sibilmente, il primo mattone per un rapporto con il bambino;

Si evita così di poter scaricare sul figlio frustrazioni e delusioni scaturi­te dal rapporto e si mostra al figlio, con l’esempio, che l’amore tra due persone non esiste solo nei fumetti o al cinema.

E questo sia nel caso di coppie che vivono assieme, che di coppie che vivono separate; al figlio non fa male tanto la separazione, quanto piuttosto vedere l’astio tra due persone che, in natura, egli ama in ugual misura; come pure fa male sentire ed osser­vare l’astio e la mancanza di fiducia reciproca tra due persone che vivono assieme.

Al contrario, sono “vitamine per lo spirito” il vedere che due persone, pur vivendo separate, mantengono sentimenti di stima (anche se le stra­de si sono divise); lo stesso per quan­do due persone che vivono assieme hanno reciproca fiducia, anche se a volte litigano.

Ciò apre il cuore del figlio e lo mantiene aperto, gli dà fiducia, sicu­rezza, entusiasmo, allegria, gli fa vedere che un giorno, da grande, toc­cherà anche a lui e che, pertanto, cre­scere e vivere, può anche essere una splendida avventura.

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